Ricordando…
Anno scolastico 2018/2019, sede secondaria, maggio, Storia
[PRIMA PUNTATA]
Siamo quasi arrivati alla fine del programma di storia. Stiamo parlando di ieri, anzi di questa mattina: il 1999, la guerra in Kosovo.
Non è stato facile arrivare fino a qui. Né per me né per i miei studenti.
Abbiamo iniziato a settembre. In dieci mesi, con tre ore a settimana, ripercorrere 40.000 anni di storia.
Una storia immensa - quella umana - da dire in poche parole. Parole semplici, adatte a chi fa ancora un po’ a pugni con la nostra lingua.
Il tempo è poco e bisogna parlare della storia: tutta la storia. Perché all’esame di giugno questi miei studenti dovranno rispondere a domande che non sarò io a porre e dal modo in cui risponderanno dipenderà il loro diritto a continuare a respirare. Perché se vogliono sperare di essere presi sul serio, domani, quando usciranno da questa scuola e cammineranno per le strade della nostra città, devono sapere che Giulio Cesare è stato ammazzato. Tu daresti retta a chi non sa neppure che c’è stato un Giulio Cesare? Io no.
Quindi bisogna parlare di storia, bisogna parlare del Tempo senza averne il tempo.
La mia mente di laureata in storia passa in rassegna quelle che sono le informazioni Assolutamente Fondamentali che i miei studenti devono conoscere. Questa mia mente un po’ troppo laureata fa un bel fagotto dei miei 18 anni di scuola, strizza il tutto e tiene solo quello che è Assolutamente Fondamentale. È quasi doloroso, ma non è il caso di sottilizzare. Mi fa coraggio Giacomo Leopardi, il quale ha detto che la miglior poesia è quella che riesce a semplificare ciò che è complesso. Non ci sarà tempo di spiegare loro chi era Leopardi: ci penso tra me e me e lo tengo in borsa, di riserva, come un segreto.
In estate ho preparato ogni lezione da settembre a maggio, fin nei minimi dettagli, pianificando quasi ogni parola che uscirà dalle mie labbra e immaginando ogni loro eventuale domanda: nemmeno un istante deve andare sprecato. Poi, armata di tutto punto come i crociati sulla via di Gerusalemme, a settembre sono entrata in classe.
Mi ero preparata anche uno splendido discorso introduttivo per far loro assaporare il piacere di studiare storia: le nostre radici comuni, il trampolino di lancio per tuffarci nel futuro e costruire un mondo migliore, l’unica opportunità che abbiamo di non commettere gli stessi errori generazione dopo generazione, la libertà totale di scegliere chi vogliamo diventare.
Il passato? “Sì, mio padre mi parlava di quando lui era bambino”, afferma V. con entusiasmo.
Sì, ma il passato è più antico di tuo padre.
La mia risposta. Primo errore. Probabilmente non mi credono.
E se anche mi credono, perché mai dovrebbe fregargliene qualcosa di conoscere un passato più passato di quello che determina il fatto che loro siano qui, oggi, in questa stanza?
V., come tanti suoi compagni, ha problemi più urgenti e immediati. Deve sopravvivere e arrivare fino a domani.
Tutto ciò che non gli serve a sopravvivere oggi è inutile. Non c’è tempo per pensare a quello che è successo ieri: allo ieri è già sopravvissuto, all’oggi no.
Annaspo. Roma. Non è possibile che l’antica grandezza di Roma non lo prenda per la gola.
“Roma? È in Italia!”. A parlare questa volta è stata H., orgogliosissima.
Il mio entusiasmo mi lascia poca pazienza, ho fretta: “Sì, ora Roma è la capitale dell’Italia. Ma prima era la capitale di un impero immenso e magnifico!”
“Quando?”
“2000 anni fa. Cioè, l’antica civiltà romana è durata quasi mille anni, quindi, in realtà…”
H. il Colosseo non l’ha mai visto, neppure in foto: come posso spiegarle, a parole, che è un po’ più che bello?
Torno a casa distrutta: questa prima battaglia l’ho persa su tutti i fronti. Bisogna ricominciare da capo. Strizzo ancora di più la matassa del tanto, troppo che so. Bisogna scendere di un gradino, non dare nulla per scontato. Questo non significa abbassare il tiro, ma permettere a chi tira di vedere almeno verso dove sta mirando.
Preparo un altro discorso e decido di dire, con le poche parole che già conoscono, un concetto che di parole non ne ha: chi non ha passato, non ha futuro.
Entro in classe e glielo dico. Questa volta mi capiscono! Il mio cuore e la mia mente festeggiano, ma poi stacco gli occhi dai miei libri e li poso sui miei studenti: chi non ha passato non ha futuro, è una frase bellissima … ma non per chi ha dovuto lasciare il proprio passato a 5000 chilometri di distanza, giù in Africa.
Dopo un paio di partenze false, in ogni caso, dalla metà di ottobre circa i miei ragazzi e io abbiamo finalmente ingranato la marcia: si va, il nostro viaggio nel tempo ha inizio.
Si procede a ranghi serrati: in ogni frase che dico inserisco parole che loro già sanno, più una parola nuova. È faticoso dovermi concentrare così tanto sul mio modo di parlare, per ogni frase che dico? Sì. Per loro però è molto più faticoso: non possono distrarsi un secondo perchè se si perdono un passaggio è finita. Per mia fortuna, hanno voglia di imparare. No, non hanno voglia. Ne hanno bisogno. Sanno che se non imparano oggi, domani non avranno un lavoro. E hanno il frigo vuoto. Anzi, non hanno ancora nemmeno il frigo.
Per ogni lezione preparo un foglio con le date e i nomi, le parole nuove e qualche immagine. Il foglio è come uno scheletro su cui in classe le mie spiegazioni e le loro domande impiantano muscoli, carne e pelle. Il trionfo è quando vedo che qualcuno prende appunti, ma è come vincere l’oro alle Olimpiadi.
Ottobre. Sulla Preistoria andiamo via in modo più facile di quel che pensassi: già, perché loro non fanno tanta fatica a immaginare un tempo nel quale la notte e il giorno erano una lotta per la sopravvivenza. Non fanno fatica nemmeno a comprendere i concetti di evoluzione e adattamento: che si salva solo chi sa adattarsi a una realtà estranea e poco accogliente è una legge che hanno imparato bene, arrivando in Italia.
[CONTINUA…]
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