di ELISABETTA CRISPONI
Oggi, per la prima volta da quando il nostro Gulliver ha preso vita, non vi accompagnerà in un viaggio che oltrepassa lo spazio, bensì trascenderà il tempo. «La Storia è testimonianza del passato, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita», ci insegna il nostro illustre antenato Marco Tullio Cicerone. Ed è proprio un tuffo nella Storia quello che vi proponiamo, parlando di un’altra emergenza sanitaria, vissuta dai nostri nonni ormai 100 anni fa: l’epidemia di Spagnola. Non è necessario essere Omero per invocare la Musa Clio (nella Mitologia greca, la Musa della narrazione storica, figlia di Zeus e Mnemosine), tuttavia è importante rivolgersi, come sempre cerchiamo di fare, a chi per studi e competenze sia in grado di arricchire la nostra esperienza attraverso la sua. Prima di passare all'intervista, vi presentiamo chi ha suonato la lira della Memoria per presentarvi questo racconto.
Marco Cuzzi, insegna Storia contemporanea all'Università degli Studi di Milano. Si occupa in particolare di storia del fascismo e del neofascismo, in ambito italiano e internazionale, con particolare riferimento al fenomeno del collaborazionismo europeo. Altri suoi interessi di studio sono la storia del confine orientale d’Italia, della Jugoslavia nel Novecento, e delle occupazioni italiane nei Balcani durante la Seconda Guerra Mondiale. Al contempo si è occupato di Storia dell’Italia Repubblicana, in particolare del ruolo del Partito Socialista. Inoltre, ha orientato i suoi studi verso la storia della Massoneria italiana.
Prima di tutto, è necessario un inquadramento storico del periodo in cui si è diffusa l’epidemia. Professore, perché il nome “Spagnola”? «La cosiddetta “Influenza Spagnola” (in realtà il virus influenzale A, sottotipo H1N1), è stata chiamata in questo modo non perché, come si potrebbe pensare, i primi casi si registrarono in Spagna. A differenza degli altri Paesi in guerra, la Spagna che era neutrale, non aveva censura bellica e quindi pubblicò sin dall'inizio della crisi sanitaria, nel gennaio 1918, le notizie in merito». Prima Guerra Mondiale. Che diffusione ebbe il virus, e quanto ha influito la guerra a tal proposito? «L’epidemia ebbe una diffusione vastissima e con conseguenze a dir poco devastanti. Perì almeno il 2,5 % della popolazione mondiale (50 milioni, secondo certe statistiche aggiornate, su 2 miliardi di abitanti planetari). I motivi di questa diffusione vanno ricercati anzitutto nelle condizioni belliche. La Grande Guerra, con le sue trincee, i suoi ospedali da campo, i suoi acquartieramenti, e soprattutto la continua mobilità dei militari impegnati –e la conseguente smobilitazione degli stessi- contribuì come un ulteriore Cavaliere dell’Apocalisse allo svilupparsi della pandemia. Le precarie condizioni igieniche e la pressoché totale assenza di validi presidi sanitari, furono un ulteriore volano. Inoltre, i c.d. “fronti interni”, cioè i Paesi impegnati nel conflitto, vivevano in condizioni di scarsità di mezzi medicali e di generi alimentari, entrambi destinati ai soldati al fronte. Per non parlare del blocco navale che stava strangolando, affamando, gli Imperi centrali. Fu questo un fattore decisivo per “gettare in pasto” al virus una popolazione alquanto debilitata».
Per quanto riguarda le origini dell’emergenza? «Le origini del virus sono controverse: oltre alla vulgata dell’origine iberica (esclusa dalle più recenti ricerche, o almeno ridimensionata nella sua veridicità), si parla di un focolaio iniziale (il “paziente zero”) nel Kansas; oppure della Cina, nella quale già nel 1917 si era sviluppata un’epidemia di broncopolmonite dalle caratteristiche simili. C’è invece chi parla di Austria. Si trattò di una comune influenza che si seppe evolvere, complice le condizioni sopracitate, nella peggiore pestilenza dell’età contemporanea; forse seconda, ma per alcuni studiosi addirittura superiore, alla terribile Peste Nera del XIV secolo».
Quali erano gli effetti del virus? «Gli effetti erano noti: astenia totale, debilitazione organica, esplosione degli agenti patogeni “di sortita” (pneumococco, stafilococco, enterococco etc.); sovente la degenerazione era broncopolmonare, oppure si registrarono spaventose pleuriti purulente e persino necrosi della cute (con colorazione violacea o nera della pelle) causate dalla carenza di ossigeno. Si moriva dopo 5-9 giorni e vennero da principio colpiti i più giovani e le donne: paradossalmente, chi aveva un sistema immunitario più forte rischiava una “tempesta immunitaria” che lo conduceva alla morte. L’arrivo dei militari smobilitati ridimensionò in favore dei maschi adulti questo rapporto. La Spagnola scomparve verso il dicembre 1920, ma non sono esclusi strascichi come l’encefalite letargica, che si sviluppò ulteriormente anche dopo il 1920».
Che interventi ci furono, da parte delle Istituzioni, a livello europeo? «Si ebbe un intervento dell’Ufficio internazionale di igiene pubblica di Parigi, sorto nel 1903 ad opera del dottor Adrien Proust (il padre di Marcel), osteggiato dalla solita, isolazionista, Gran Bretagna. Ma l’impotenza fu assoluta e la principale raccomandazione dell’Ufficio e delle autorità di sanità dei singoli Paesi fu “lavarsi ripetutamente le mani”, restare il più possibile in casa ed evitare i contatti di prossimità». Guarda caso... qualcosa che ci suona familiare... «Poi si ebbero le fosse comuni, i funerali prima intensi e poi annullati, gli ospedali stracolmi (e la riottosità degli ammalati nel farsi ricoverare, intuendo la trasformazione dei nosocomi in lazzaretti manzoniani, con conseguente agonia tra le mura domestiche). Cinema, teatri e sale da ballo si svuotarono anche se non risultano lockdown generali organizzati dai singoli governi. Si tentarono rimedi quali l’aspirina, che ebbe effetti peggiori e aggravanti, oppure la vaccinazione antitifica, che peraltro ebbe uno scarso seguito. Inoltre, le ostilità prima belliche e poi diplomatiche tra i singoli Paesi impedirono un’azione comune e, anzi, ci fu chi accusò un Paese di avere favorito la diffusione del virus per colpire la Nazione avversaria. Il caso più eclatante fu l’accusa lanciata dalle opinioni pubbliche occidentali alla Russia bolscevica, che secondo alcuni organi di stampa avrebbe utilizzato (e forse creato!) il virus per smantellare il sistema capitalistico mondiale».
Nella profilassi, quindi, sembra che non ci siano state grandi differenze tra allora e oggi, a leggere le raccomandazioni delle autorità. «Esatto. E neppure nella reazione dei cittadini, impauriti allora come cento anni dopo, ma anche straordinariamente solidali. Di certo non si ebbero sostegni multinazionali ai Paesi più colpiti, anzi: come ho già detto, le ostilità tra le nazioni già avversarie in guerra (e che sarebbero proseguite almeno fino alla vera pace, il Trattato di Locarno del 1925) impedirono azioni comuni. Inoltre, va rilevato che a differenza di questa pandemia in corso, allora non si registrarono grandi differenze tra le nazioni, almeno europee, e il virus fu sostanzialmente devastante ovunque». Secondo Lei, l'Unione Europea ha agito in modo adeguato rispetto all'emergenza del Covid-19? Cosa avremmo dovuto aspettarci, da cittadini di un’Europa Unita, a differenza di ciò che si poteva pretendere cento anni fa? «Direi che l’UE ha fatto molto in termini economici, al di là di ogni polemica. I soldi ci sono, tutto sta nel farli arrivare in fretta, ma questa è responsabilità dei singoli governi e di sistemi burocratici che paiono l’incubo di Max Weber (morto proprio cento anni fa, a quanto pare, per conseguenze della Spagnola). In questo senso, l’Europa ha fatto un “salto qualitativo” inaspettato e insperabile fino a pochi mesi fa. Ciò che manca ancora è una politica e un’istituzione sanitaria centrale che coordini tutte le sanità nazionali. Anche perché, in questo momento circola il Covid-19, ma di Coronavirus ne potrebbero arrivare altri, nel prossimo futuro. E questo non lo affermo da storico, ma da cittadino europeo».
Un paragone di quegli anni con la nostra era, soprattutto per quanto riguarda i giovani. «Domanda insidiosa e difficile. Nessun avvenimento storico può essere paragonato con il mondo a noi contemporaneo: troppe variabili. Nello specifico, poi, il paragone con la guerra è improprio. Nonostante il numero di morti, forse cinque volte superiore alle vittime belliche, la Spagnola venne da molti accumunata alle pene del conflitto, e quindi non si ebbe un “vissuto autonomo” della tragedia sanitaria. Nel libro delle Rivelazioni, Giovanni unisce il Cavaliere della Guerra a quello della Pestilenza e a quello della Carestia. E da ultimo, arriva lui, che tutti comanda: il nero Cavaliere della Morte. Per quella gente –mi ricordo i racconti di mia nonna Lisetta, colpita e sopravvissuta dal virus a Fiume nel 1919- la Spagnola fu conseguenza naturale del più grande conflitto mai scoppiato a memoria d’uomo. Oggi siamo passati da una situazione di rilassato benessere (ancorché con tanti e troppi problemi, dominato com'era dall'incertezza, vero spettro che aleggia sulle nuove generazioni da almeno un decennio a questa parte) a una realtà sconcertante e improvvisa, che ci ha lasciati attoniti, sospesi in una dimensione irreale, quasi onirica. Sembrava, è il caso di dirlo, di vivere in uno di quei film apocalittici che raccontano dell’innesto dell’impossibile in una realtà quotidiana: mi viene in mente il grande maestro George A. Romero, con i suoi zombi-movies, o anche, per essere più attuali, Walking Dead, oppure i film post atomici o, per l’appunto, post pandemici».
E adesso? «Ora, ci vuole un po’ di ottimismo. I giapponesi hanno l’arte del Kintsugi, ovvero saper rimettere insieme i cocci di un oggetto rotto utilizzando come collante l’oro o un altro metallo nobile. L’oggetto, il vaso o la statuetta, così riparato, diventa più prezioso e più robusto. Ecco, forse la straordinaria capacità di voi ragazzi, forgiati da un decennio di incertezza, ma alimentati da una volontà di farcela a ogni costo, ovvero il vostro naturale ottimismo nella vita, ci aiuterà a rimettere a posto i cocci di un mondo che soltanto cinque o sei mesi fa consideravamo… indistruttibile».
Ispirati da Clio abbiamo iniziato questo viaggio, e con il grande poeta Kahlil Gibran lo concludiamo:
"Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici".
Alla prossima puntata!
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