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MI METTO DI MEZZO (STICK MY NOSE IN THEM)

Immagine del redattore: A porte SchiuseA porte Schiuse

Ricordando…

Anno scolastico 2019/2020, sede secondaria, incontro con le famiglie, dicembre


La nostra è forse l’unica scuola nella quale, quando i professori chiedono di incontrare le famiglie, a venire sono i figli degli studenti e non i genitori. Penso questo, mentre una ragazza mi porge la mano e sorride rivelando una totale assenza di timidezza.

Per conoscere il contesto in cui vivono i nostri studenti abbiamo organizzato per oggi una giornata di ‘Scuola Aperta’, invitando i familiari. Non è un colloquio perché i nostri ‘ragazzi’ hanno un’età media che supera allegramente i 40 anni; più che altro è una chiacchierata.

È in questo modo che incontriamo la ragazza priva di ogni traccia di timidezza. Entra, stringe la mano a me e ai colleghi uomini, si presenta, si siede, prende una fetta di torta e inizia a parlare. Il suo italiano è perfetto, con cadenza lombarda.

“Quindi volete conoscere la mia famiglia, giusto? Volentieri, eccomi qua! Parto a raccontare dall’inizio? Dunque… Siamo venuti in Italia quando io avevo 14 anni, cioè 9 anni fa. Io, i miei genitori e i miei fratelli che sono tre maschi più piccoli di me. Veniamo dal Marocco: mia mamma è di Casablanca, mio papà invece è cresciuto con una tribù berbera nomade nel deserto del sud. Siamo musulmani sunniti praticanti, ma io ho scelto di non indossare il velo e a loro va bene così perché la fede non va mostrata ma vissuta nel cuore. Voi state insegnando a leggere e scrivere a mio papà e siete i primi a farlo, ma sappiate che io vi ho spianato la strada!”

Ride. Si muove con una grazia che rimane negli occhi.

Indossa un paio di pantaloni stretti, una camicia bianca e un maglione aperto, di taglio semplice ma elegante; con un gesto della mano forse lievemente vanitoso si getta all’indietro i folti capelli neri, riccissimi. Sulle unghie rifinite ha un leggero smalto rosa, sulle labbra un po’ di rossetto, la matita sotto gli occhi.

Mi guarda e coglie il mio stupore: “Sì, sai, mi piace curare il mio aspetto! Avrei voluto studiare Design e Moda all’università, ma poi ho cambiato idea”.

Mi viene spontaneo sorridere, ma non voglio essere fraintesa. Ci pensa lei a sorridere al posto mio: ha già capito che in questa scuola siamo abituati a veder entrare persone che non hanno una fissa dimora, oppure non hanno l’acqua per lavarsi tutti i giorni, oppure ancora vengono in classe dopo il turno in fabbrica o dopo la nottata sul camioncino dei netturbini. L’aula dove ci troviamo non ha mai sentito parlare di moda, di design e men che meno di università.

“Perché hai cambiato idea?”, le chiedo.

Mi mordo la lingua: come ho fatto a non pensare che la risposta è ovvia? Per frequentare l’università bisogna pagare una retta salata.

Ancora una volta, però, sono del tutto fuori strada.

“Perché ho deciso di studiare lingue e mediazione culturale. Mi sono appena laureata in triennale e adesso sto proseguendo gli studi. Ho iniziato a lavorare come cameriera e baby-sitter quando avevo 16 anni e ho messo via abbastanza denaro per non dover chiedere nulla ai miei genitori”.

Infatti, ero fuori strada.

“E allora perché studi lingue e non moda?”

Questa volta la mia mente si astiene dal formulare ipotesi, per risparmiarsi un’altra figuraccia. Infatti, ecco la spiegazione:

“Sarebbe sciocco, non credi? In Marocco ho imparato il francese e l’arabo, con i miei genitori parlo due diversi dialetti marocchini e in Italia ho imparato l’italiano e l’inglese. Mi sono laureata in arabo, francese e inglese, e ormai la mia lingua è l’italiano. Sto continuando a studiare per approfondire la conoscenza di tutti i dialetti arabi della costa meridionale del mar Mediterraneo, quindi anche le varianti parlate in Egitto, in Libia, in Tunisia e in Algeria. Voglio lavorare con gli europei che hanno bisogno di parlare con i nordafricani ma non sanno come fare: secondo me, non sarò disoccupata neanche un giorno in tutta la mia vita!”

Ha le idee chiare. Ha in mente un lavoro. Un lavoro sicuro, stabile, molto richiesto e con ottime prospettive di sviluppo in futuro.

Noto che sta parlando da europea: ragiona ponendo se stessa sulla sponda nord del Mediterraneo. Lavorerà con noi, per noi. Per le aziende europee che hanno clienti o fornitori in Nord Africa, per gli affari esteri degli Stati e degli enti locali, per i centri di accoglienza.

Tutto questo lo dico ad alta voce, ma non perché voglio darle un suggerimento. Non ne ha bisogno. Sa benissimo dove vuole andare e come deve arrivarci. Anzi, mi corregge:

“No, per i centri di accoglienza non voglio lavorare. Mi metterò di mezzo anche lì: ho già iniziato a farlo. Ma come volontaria. Non voglio essere pagata. Mi metto di mezzo per spiegare a chi arriva che deve accettare le regole dell’Europa, e per spiegare a chi accoglie che quelli che ha di fronte sono esseri umani. Ricordo che quando sono arrivata in Italia con la mia famiglia c’era un ragazzo italiano che ha detto queste stesse parole in francese. Io capivo perché ero l’unica ad aver studiato il francese a scuola e ho tradotto ai miei genitori. Mio papà ha risposto che finalmente eravamo arrivati a casa. Ecco, io voglio essere quella che dice alle persone che sono arrivate a casa in tante lingue diverse”.


Stiamo partecipando a un concorso su Instagram, con un video che racconta proprio la storia di questa ragazza:

Se vi piace, per favore lasciateci un cuoricino (e un commento!).


 

STICK MY NOSE IN THEM

Recalling…

School year 2019/2020, secondary building, December (Meeting the families)

Only in our school the students’ children attend teacher-family meetings, instead of the students’ parents. This is on my mind as a girl shakes my hand smiling, without a trace of shyness.

We organized an ‘Open day’, inviting our students’ relatives, to gain better knowledge on their lives. It isn’t a teacher-parent meeting, because our ‘kids’ are well over their forties on average; it’s more of an informal chat.

This is how we meet this fearless girl. She comes in, shakes hands with both male and female teachers, she introduces herself, helps herself to a piece of cake, sits down and starts talking. Her Italian is fluent, with an accent from Lombardy.

“So you’d like to know my family, right? Well, here I am! Should I start from the beginning? Well… We came to Italy when I was 14, nine years ago. My parents, my three younger brothers and I. We’re from Morocco: my mom from Casablanca, my dad grew up in a nomadic Berber tribe of the southern desert. We are practicing Sunni Muslims, but I chose not to wear the veil and they’re fine with it, because faith doesn’t need to be flaunted but be experienced in one’s heart. You are teaching my dad to read and write and you’re the first to ever attempt it, but I was the one who paved your way!”

She laughs. She moves with a grace that leaves an impression in our eyes.

She’s wearing skinny pants, a white blouse and a cardigan, simple yet elegant; with a slightly vain gesture she moves her thick black curls from her face. The manicured nails are painted pink, a layer of lipstick on the mouth, a line of eyeliner.

She notices my amazement: “You know, I like taking care of my appearance! I would have liked to study Design and Fashion in college, but I changed my mind”.

I smile, but I don’t want to be misunderstood. She smiles back: she knows we are used to meeting people who are homeless, or don’t have access to running water, or who come in after their shift at the factory or after a night on the garbage truck. The room we are in never saw anyone talk about fashion, design or even college.

“What made you change your mind?”, I ask.

I immediately regret asking: shouldn’t it be obvious? College tuition is expensive.

Once again, my assumption is off.

“I chose to study Foreign Languages and Cultural Mediation instead. I just finished my bachelor’s degree and I started my master’s. I have been waiting tables and babysitting since I was 16 and have enough money put away to pay for it”.

I was way off.

“So why are you not studying Fashion?”

This time I refrain from expressing hypothesis. Well:

“It would be silly, don’t you think? In Morocco I learned French and Arab, I speak two different Moroccan dialects with my parents, I learned Italian and English here in Italy. I have a degree in Arab, French and English, but my primary language is Italian now. I’m still studying the Arab dialects of the southern coast of the Mediterranean Sea, those spoken in Egypt, Libya, Tunisia and Algeria. I want to work with Europeans who need to communicate with northern Africans but can’t: I don’t think I’ll be unemployed for a single day in my life!”

She knows what she wants. She has a job in mind. A job which is stable, sought-after and with excellent future perspectives.

I notice she’s speaking like a European: placing herself on the northern shore of the Mediterranean. She’ll work with us, for us. For European companies whose suppliers or clients are in northern Africa, for the Ministry of International Affairs, for local communities, for refugee centres.

I say this aloud, not as a suggestion for her. She doesn’t need any. She knows her objective and how to get there. She even corrects me:

“I don’t want to work for refugee centres. I’ll stick my nose in them: I already started. But as a volunteer. I don’t want to be paid for that. I stick my nose in there to explain the migrants they have to accept the rules Europe laid out, and to those who host them that they are dealing with humans like them. I remember when I first arrived an Italian kid said these exact words in French. I understood because I had studied French in school and translated for my parents. My dad said we were finally home. I want to be the person to tell everyone welcome home in many different languages”.


We realized also a Instagram video about the dream of this nice girl:



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