Ricordando...
Anno scolastico 2017-2018, sede centrale, febbraio
Mentre esco da scuola, dopo la fine dell’ultima lezione, una ragazza senegalese mi rincorre nel cortile: vuole parlarmi ma non l’ha fatto in classe per timidezza.
Ha folti capelli ricci tenuti in ordine da una magia fatta di mollette trasparenti e codini colorati, un corpo che le invidio tanto è magro, alto e muscoloso, due occhi da notte senza stelle e la pelle color pece. Le invidio la forma perfetta del suo corpo anche perché so che ha tre figli, tutti partoriti prima di giungere in Italia e soltanto uno in ospedale; so anche che lavora in un’impresa di pulizie per mantenerli, mentre attende che il marito riesca a intraprendere il viaggio verso l'Italia.
“Cosa vuoi dirmi?”, la incoraggio.
“Qualche giorno fa ero in ospedale perché mio figlio doveva fare una visita. Ero in fila con lui, stavamo aspettando il nostro turno ma eravamo arrivati alla mattina molto presto e quindi c’erano poche persone davanti a noi e tante dietro…”
Si blocca, esita, la voce le si arrugginisce in gola, vedo che sta facendo uno sforzo enorme per rimanere accanto a me e parlarmi.
Lei riprende: “C’era una donna in fila dietro di noi che a un certo punto, quando era quasi arrivato il turno di mio figlio, mi ha spinta e si è messa davanti a me. Io non ho fatto niente perché lei ha detto che non aveva tempo di aspettare in fila perché doveva andare al suo lavoro”.
La sua voce ora tace, ma le mani che si tormenta sulle ginocchia mi dicono chiaramente che non mi ha ancora detto tutto; anzi forse non mi ha ancora detto nulla. Infatti:
“E poi c’era anche un uomo, un po’ anziano, che ha detto che la signora ha fatto bene a superarmi nella fila perché le persone come me non hanno niente da fare e quindi possiamo aspettare. Ha detto che i neri non lavorano mai, che siamo peggiori degli altri immigrati e che è tanto se ci lasciano andare in ospedale senza pagare più degli italiani che pagano anche le tasse. Ha detto che nessuno mi ha invitata a venire qui. Ha detto così e a me dispiace perché mio figlio ha sentito”.
Mi guarda. Aspetta una risposta da me e sarebbe più che giusto che io gliela dia, ma non ho idea di dove andare a cercare le parole. Esiste un’ignoranza che non so come sia sopravvissuta alla storia per sbarcare anche in questo che dovrebbe essere il ventunesimo secolo. È un’ignoranza di gran lunga peggiore di quella dei miei studenti che fino a pochi mesi fa non sapevano che esiste la Spagna né come si leggono le lettere dell'alfabeto. Per l’ignoranza dei miei studenti un rimedio c'è, ma per quella dei due in fila in ospedale no.
Non mi sono mai sentita tanto sconfitta come quando ho capito che la mia studentessa aveva in fondo accettato, in cuor suo, di essere trattata in quel modo. Come se lei fosse fuori posto, come fosse un’intrusa, una lavativa, una persona inutile. Io so che lavora (e paga le tasse, sia detto per inciso!), studia, è mamma di tre figli ed è completamente sola. So questo di lei perché l’ho chiesto e forse se anche quei due si fossero presi la briga di rivolgerle la parola, prima di calpestarla, non avrebbero dato per scontato che il tempo dei bianchi sia più prezioso di quello dei neri.
Ma in quanti di noi se ne prendono la briga?
YOU HAVE NOTHING ELSE TO DO
Recalling…
School year 2017-2018, main building, February
As I’m leaving after the last class of the day, a young woman from Senegal runs after me in the schoolyard: she’d like to talk to me but she was too shy to do so during class.
She has thick curly hair, kept neat with transparent pins and colourful hair ties, a tall, thin and fit body I envy, eyes as the darkest night as is her skin. I envy her fitness because I know she’s a mother of three, all birthed before leaving for Italy and only one of them in a hospital; I also know she works in a cleaning company to support them, waiting to reunite with her husband.
“What did you want to tell me?” I encourage.
“A few days ago I brought my son to the hospital for a medical examination. We were in line waiting for our turn but we had arrived early so there were only a few people before us and a lot behind and…”
She halts, hesitates, her voice is stuck in her throat, I can feel the enormous effort it takes to keep talking to me.
She goes on: “A woman in line, as it was almost my son’s turn, shoved me and stole my spot. I said nothing because she said she was in a hurry and needed to go to work”.
She is silent now, but her wringing her hands suggests she is not done.
“An older man said she was right in doing so as people like me have nothing else to do, therefore we can wait longer. He said black people never work, that we’re worse than other immigrants and it’s already a privilege we’re allowed public medical treatment for no additional fees than Italian taxpayers. He said no one invited me to come here. He said that and I’m sorry my son heard it all.”
She looks at me. She waits for an answer and it would be right of me to give her one, but I can’t seem to find the words. There is a kind of ignorance which has survived history to represent itself in the twenty-first century. It’s an ignorance of a way worse kind than that of my students, which didn’t know Spain existed until a few months ago or how to read the alphabet. My students’ ignorance can be fixed, I can’t say the same for those two in line at the hospital.
I never felt so defeated when I understood that my student had, essentially, accepted to be treated like that. As though she was out of place, an intruder, lazy and useless. I know she works (and is a taxpayer too!), she studies, she’s a single mother of three. I know this because I asked her and if those rude people had even thought of asking, they wouldn’t have assumed their white person time is more valuable than that of blacks.
But after all, how many of us would even ask?
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