Ricordando…
Anno scolastico 2018/2019, sede secondaria, gennaio, Italiano
Anche questa sera, come già altre volte, abbiamo in classe un ospite speciale: si chiama J., ha 8 anni e non sta fermo un secondo. Gioca, disegna, si alza, si siede, cammina, cambia posizione sulla sedia, si dondola, mi fa spaventare, ride, chiede scusa. Soprattutto, parla.
E scrive, sul quaderno della mamma.
Sua mamma ha iniziato da pochi giorni a frequentare il corso serale nella nostra scuola. Siamo ormai quasi a metà dell’anno scolastico, ma in autunno lei lavorava fino a tarda sera. A giugno non avrà il diploma come i suoi compagni, ma a lei va bene così. Quel che vuole è imparare a parlare. Non chiede altro. Imparare a parlare con le maestre di suo figlio, innanzitutto, e poi con noi, con i suoi vicini di casa, con l’anziana signora che accudisce, con i figli di questa signora.
Lei è nata in Malawi, a occhio direi non più di una trentina d’anni fa. Forse molti meno. Anche suo figlio J. è nato in Malawi, ma non ha mai visto il lago Niassa: aveva pochi mesi di vita quando è iniziato il suo viaggio verso l’Italia attraverso la Tanzania, il Kenya, il Sudan. Ogni virgola, che in questa mia trascrizione separa una tappa dall’altra, ha richiesto per lui e per la madre mesi di viaggio, fatica, paura, soldi, solitudine e compagnia di persone che fanno rimpiangere la solitudine. Fino a quando sono arrivati in Libia, dove sono rimasti prigionieri per oltre sei anni.
È con il bambino che parlo, il bambino che mi racconta le tappe del viaggio traducendo le parole di sua madre: mi manca il coraggio di domandare come sia stata la loro vita in Libia. È ancora il bambino a dire “siamo stati prigionieri”, e poi tace. Il suo silenzio, e quello ancora più muto della madre, dicono tutto.
Ma adesso J. è qui, di fronte a me, in questa stanza, accanto a sua madre.
Si trovano in Italia da sette mesi, nella nostra città da cinque. A settembre lui è stato inserito in terza elementare. Non aveva mai tenuto in mano una penna per scrivere, né una matita per disegnare; parlava in lingua Chichewa e in arabo, non certo in italiano.
Oggi, questa sera, traduce per me le parole di sua madre, e per sua madre le mie parole. Gioca, disegna, si alza, si siede, cammina, cambia posizione sulla sedia, si dondola, mi fa spaventare, ride, chiede scusa. Soltanto a me questo comportamento - ovvio in un qualsiasi bambino - in lui sembra straordinario? E scrive, sul quaderno della mamma.
Quando ha finito, cede la penna alla madre. Lei ricopia lentamente le lettere scritte dal bambino, si sforza di leggerle, una per una, poi tutte insieme per formare una parola, alza gli occhi su J., che ride e le dice “Brava mamma! Però uffa, sei lenta!!”
E si ricomincia. Lui prende la penna…
Io resto a guardarli. Mi fermo soprattutto sulla madre. Se non fosse per questo bambino, non saprei cosa fare per lei. Ho altri 18 studenti in classe e un programma didattico che non prevede il ‘livello 0’. Chi conosce la lingua italiana a ‘livello 0’ rimane fuori, escluso… Ci dispiace ma la nostra scuola non fa per te, non possiamo fare niente. Vai a cercare aiuto in Comune, in Prefettura, in parrocchia…: questo le avremmo detto, se non fosse stato per suo figlio.
Suo figlio, che in pochi mesi ha imparato a leggere, a scrivere e a parlare in italiano. Suo figlio, che crescerà in Italia. Davvero pensi che questo bambino diventerà nient’altro che una zavorra per la nostra economia?
Noi non sappiamo cosa accade nei campi di prigionia in Libia. Quel poco che sappiamo lo abbiamo saputo dalla Rai:
da Avvenire:
da La Repubblica:
E da tanti altri, giornalisti e magistrati. Chissà se i nostri studenti avranno mai il coraggio e la voglia di raccontare quel che hanno vissuto. Noi abbiamo scelto di non insistere: se vorranno, saremo pronti ad ascoltare (e a diventare portavoce, come sempre, tramite questo blog). Ma non riteniamo di poterlo pretendere.
WRITE THIS, MOM
Recalling…
School year 2018/2019, secondary building, January, (Italian)
Tonight, and not for the first time, we have a special guest in the classroom: his name is J., he’s 8 and he can’t stay still. He plays, walks around, sits down, adjusts himself on the chair, dangles from it, scares me, laughs, apologizes. Most of all, he talks.
And he writes, on his mother’s notebook.
His mother just started attending night school a few days ago. We are almost halfway in the school year, but she has been working until late during autumn. She will not be graduating in June, but she is ok with that. She just wants to learn to speak the language, that’s all. Learn to speak to her son’s teachers, first of all, and also with us, with her neighbours, with the elder lady she takes care of, with this lady’s children.
She was born in Malawi; I’d say no longer than thirty years ago. Maybe less. J., her son, was also born in Malawi, but he has never seen Niassa lake: he was just a few months old when they started their journey towards Italy, across Tanzania, Kenya, Sudan. Every step of the way costed his mother and him months of travelling, fear, money, loneliness, and the company of people who make you crave for loneliness. Until they arrived in Libya, where they were prisoners for over six years.
It's the kid I am speaking with, the kid telling me all the stages of this journey, translating his mother’s words: I lack the courage to ask about the time they spent in Libya. It’s the kid who says “We were prisoners”, and then becomes quiet. His silence, and that of his mother, are louder than words.
But J. is here now, in front of me, in this room, next to his mother.
They have been in Italy for seven months, five of which spent in our city. In September, he was entered in a third year elementary school class. He never held a pen or pencil before, he had never written nor drawn anything; he spoke Chichewa and Arab, not a word of Italian.
Tonight, he is translating his mother’s words to me, and vice versa. He walks around, sits down, adjusts himself on the chair, dangles from it, scares me, laughs, apologizes. He plays, he talks. To me, this behaviour – normal for every kid – is amazing. And he writes on his mother’s notebook.
When he is done, he hands his mother the pen. She slowly copies the letters the child wrote, tries to read them one at a time and then all together to form a word, then looks at the kid that says: “Well done, mom! But you are still slow!”
And so it begins once again. He takes the pen…
I just watch them. I especially observe the mother. If it wasn’t for this child, I wouldn’t know where to start with her. I have 18 more students in the same class and a syllabus that is more advanced than this. Those who are a “level 0” in Italian are left out, excluded… We are sorry but this school is not for you, we can’t do anything. Go seek help at the city hall, the prefecture, the parish… This is what we would have told her, if it was not for her son.
Her son, who learned to read write and speak Italian in the span of a few months. Her son, who will grow up in Italy. Do you really think this child will become a dead weight for our economy?
We don't know exactly what is happening in Libya. We can only read some journalist investigation, like these:
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