DI ELISABETTA CRISPONI
Per l’ultimo viaggio dell’anno, Gulliver percorrerà la storia di un popolo e una nazione, navigando tra le acque di un fiume che ha visto nascere e tramontare una civiltà sulle sue sponde, diventando così primo testimone della Storia. Stiamo parlando del fiume per eccellenza, il Nilo, e della terra d’Egitto, che da sempre questo corso d’acqua nutre e disseta. Il termine Nilo (in arabo: 'nīl) proviene dalla parola greca Neilos (Νειλος), “valle del fiume”. Nella lingua egizia, il Nilo è chiamato Iteru, “Grande fiume”. Il suo corso è rimasto lo stesso dai tempi di Tutankhamon, Ramses il Grande e i Tolomei, ha condotto le loro imbarcazioni da guerra e i loro carichi di cereali, trasportato materiale per la costruzione di Piramidi e altre grandi opere a gloria dei faraoni. Sono passati i secoli, e lo scenario che ora si prostra davanti agli occhi del Nilo è cambiato radicalmente.
Nel 2011 la cosiddetta “Primavera araba” ha posto fine al regime trentennale di Mubarak, nel 2013 un colpo di stato militare ha rovesciato il presidente Mohamed Morsi, eletto democraticamente, e da quel momento il Paese è sprofondato nel caos. Dal 2014 l’Egitto è governato dal militare al-Sisi, figura controversa, che si trova a dirigere una Nazione con il debito estero quintuplicato e quello interno raddoppiato. Ma ciò su cui vogliamo fare luce sono degli aspetti che, ancora una volta, si intrecciano con la storia di uno studente. No, non si tratta di un allievo della nostra scuola, né di un ragazzo straniero in Italia. È un forestiero, sì, uno studente, stavolta italiano, in terra straniera. Stiamo parlando di Giulio Regeni. Ripercorriamo brevemente la sua triste vicenda.
28 anni, originario di un paese in provincia di Udine, dottorando all'Università di Cambridge e in Egitto per scrivere la sua tesi. Giulio era soprattutto un ragazzo che amava ciò che faceva, e ogni tanto lo raccontava anche scrivendo per alcune testate giornalistiche sotto pseudonimo. Sapeva parlare cinque lingue, si era iscritto come ricercatore ospite all'Università Americana del Cairo e aveva trovato una stanza a Dokki, un quartiere tra le Piramidi e il Nilo, ma ad appena due fermate di metro dal centro della città. Aveva fatto amicizia con scrittori e artisti, passava ore a intervistare gli ambulanti e, per conquistare la loro fiducia, frequentava i loro ambienti e mangiava nelle stesse bancarelle. A dicembre 2015 aveva partecipato ad una riunione di attivisti del sindacato, notando una ragazza velata che lo fotografava col cellulare, fatto che aveva raccontato agli amici turbato. Col passare del tempo, il rapporto con il suo contatto principale, il capo del sindacato degli ambulanti, si stava deteriorando: una sera, all'inizio di gennaio del 2016, sorseggiando un tè, avevano discusso per una borsa di studio di 10 mila sterline (11 mila euro), offerta da un’organizzazione no-profit britannica. Il sindacalista chiese a Regeni se quella cifra poteva essere usata per progetti d’attivismo politico contro il governo egiziano, o per poter curare sua moglie, ottenendo la risposta negativa del giovane ricercatore.
(Di questa conversazione si può rintracciare il video su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=bwo61fQDcYw).
Il 25 gennaio del 2016, giorno dell’anniversario dell’inizio delle proteste del 2011, Giulio esce di casa, per andare ad una festa di compleanno dove non arriverà mai. Scompare in una fermata della metropolitana, il suo corpo, seminudo e con segni evidenti di tortura, viene ritrovato il 3 febbraio lungo la superstrada che collega il Cairo con Giza. Sua madre commenterà così la visione di quel corpo martoriato: «Ho riconosciuto mio figlio dalla punta del naso. Su quel viso ho visto tutto il male del mondo e ho detto: perché si è riversato su di lui?».
Da quel momento è partita un’inchiesta senza fine. La Procura del Cairo e quella di Roma avviano inchieste parallele, ma è presto chiaro che dalla capitale egiziana arrivano vari tentativi di depistaggio. È stato ipotizzato di tutto: un incidente, un omicidio passionale, persino lo spaccio di droga. Fino ad arrivare all'uccisione, in un conflitto a fuoco con la polizia, di cinque presunti responsabili dell’omicidio. A casa di uno di loro viene ritrovato il passaporto di Giulio, ma con le indagini si scoprirà che a portare il documento in quell'abitazione è stato un agente dei servizi segreti egiziani. Per i Pm italiani Giulio è stato torturato e ucciso perché ritenuto una spia. La collaborazione tra i due Paesi non è mai stata vera e leale, agli italiani è stato concesso di interrogare alcuni testimoni solo per pochi minuti, i filmati delle telecamere nella stazione della metro dove lo studente è scomparso sono stati cancellati. Nel dicembre 2018 la Procura di Roma iscrive nel registro degli indagati cinque militari egiziani ritenuti responsabili del sequestro. Dopo l’uccisione di Giulio Regeni, i rapporti diplomatici tra l’Italia e l’Egitto ondeggiano in un mare avverso: l’8 aprile del 2016 viene richiamato a Roma il nostro ambasciatore dal Cairo, per poi rinominarlo il 15 agosto del 2017, facendo riprendere i rapporti diplomatici tra le polemiche della famiglia di Giulio e dell’Italia intera. Le relazioni persistono, ma il 26 gennaio 2019, il presidente della Camera Roberto Fico ha accusato il presidente egiziano di aver mentito sull'omicidio. Ad aprile 2019 il premier Giuseppe Conte ha incontrato al-Sisi, e pochi giorni fa ha ribadito, con una chiamata al presidente egiziano, l’urgenza di collaborazione per risolvere il caso.
Ma quello che è successo a Giulio è la sorte di tantissimi giovani egiziani. Dalla presa di potere di al-Sisi, 80 mila egiziani sono stati arrestati, e molti di questi condannati a morte. È difficile stabilire il numero esatto delle esecuzioni, anche perché l’Egitto non pubblica dati ufficiali a riguardo. Intanto, alle accuse il governo egiziano risponde ribadendo la sua determinazione nel combattere il terrorismo.
“È davvero meravigliosa la lotta che l’umanità combatte da tempo immemorabile; lotta incessante, con cui essa tenta di strappare e lacerare tutti i vincoli che la libidine di dominio di un solo, di una classe, o anche di un intero popolo, tentano di imporle. È questa una epopea che ha avuto innumerevoli eroi ed è stata scritta dagli storici di tutto il mondo. L’uomo, che ad un certo tempo si sente forte, con la coscienza della propria responsabilità e del proprio valore, non vuole che alcun altro gli imponga la sua volontà e pretenda di controllare le sue azioni e il suo pensiero.” (da Scritti Politici, Antonio Gramsci).
Continuiamo a non capire cosa può avere a che fare, con spionaggio e terrorismo, la passione di un ragazzo che aveva speso tutta la sua giovane vita per lo studio. Continuiamo a non capire perché Giulio è stato torturato a più riprese, tra il 25 e il 31 gennaio 2016, fino a spezzargli l’osso del collo. Continuiamo a non capire, come la sua mamma Paola, perché tutto il male del mondo si è riversato su di lui. Nella morte di Giulio è rappresentata la morte di chi lotta con l’arma più forte di tutte; quella che ci proclama sempre vincitori, anche quando cadiamo sconfitti: la Cultura. Prima di uscire di casa per l’ultima volta, Giulio ha ascoltato A Rush of Blood to the Head, una canzone dei Coldplay. Da quel giorno, le correnti del Nilo trasportano anche quello spartito e una melodia si è aggiunta alle sue sapienti acque. Oggi, a quasi quattro anni dalla sua scomparsa, dedichiamo questo brano a Giulio, sperando che quelle note lo raggiungano, insieme al desiderio di verità e giustizia.
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